PAPI E BEATI - PAPA GIOVANNI XXIII - IL PADRE DEI GALEOTTI

INTRODUZIONE

Appena quindici giorni dopo la sua elezione, Papa Giovanni cominciò a ritoccare il protocollo della giornata papale con estrema naturalezza: invitò a colazione mons. Bortignon, vescovo di Padova, di cui era stato metropolita a Venezia, e mons. Piazzi, vescovo di Bergamo.
Papa conviviale, è stato definito; ed è vero, in questo senso. Paternità e amicizia sono sempre state spontanee, in lui; e quanto di nuovo hanno portato nella Chiesa, è sgorgato dallo slancio di un affetto, non dal calcolo di una diversità ad ogni costo. Sbaglierebbe chi credesse che quelle colazioni e quelle cene fossero sempre delle liete chiacchierate del più e del meno. Le più volte erano niente di diverso da una refezione di tipo conventuale. Come si sa, i frati, durante i pasti, per un certo tempo ascoltano uno di loro che legge la Bibbia, le opere dei Padri della Chiesa o un libro devoto. Solo negli ordini di non strettissima vita monastica, dopo la lettura, viene la dispensa dal silenzio, da parte del superiore, e s'inizia una breve conversazione. Così Papa Giovanni faceva spesso. Per convincersene non c'è nemmeno bisogno di cercare testimonianze tra i suoi collaboratori più diretti; basta leggere Il Giornale dell'Anima.
Appena eletto Papa, ha cercato di sapere come pensavano e come agivano i Papi della storia, specialmente quelli che sentiva più congeniali. Altre volte ha desiderato, con umiltà, riascoltare parole che aveva letto prima d'essere Papa, dirette a questo o a quel Papa da santi famosi, che non avevano peli sulla lingua. La sua umiltà lo portava a misurarsi su quelle parole, a cercare di combaciare, giorno per giorno, sull'immagine ideale che del Papa si erano fatta santi illustri e benemeriti. Così si fece leggere a tavola da mons. Capovilla il De consideratione di san Bernardo a Eugenio III. Lo annota nel diario durante il ritiro in Vaticano del dicembre 1959: «Durante i pasti mi feci leggere da mgr. Loris parecchie pagine del De consideratione di san Bernardo a papa Eugenio. Niente di più adatto ed utile per un povero papa come sono anch'io, e per un papa di tutti i tempi. Qualche cosa di ciò che non faceva onore al clero di Roma del secolo XII resta pur sempre. Perciò vigilare necesse, corrigere, e sopportare».
Papa Giovanni sapeva distinguere bene la critica alla Chiesa fatta per amore ed obiettivamente, dalla critica fine a sé stessa e colma di astio. È stato soprattutto il suo spirito, il suo stile, la sua presenza al vertice della Chiesa ed il carattere del suo pontificato che ha reso possibile, ai nostri giorni, soprattutto alla vigilia del Concilio e durante il Concilio stesso, il rifiorire di questa critica cattolica quale condizione preliminare della "riforma cattolica" di cui parlerà esplicitamente il suo successore Paolo VI.
Alla vigilia del Concilio è stato detto che «la critica alla Chiesa è un atto d'amore». E non è stato detto da un laico o da un cattolico isolato, bensì da un intero episcopato, quello dell'Olanda, proprio nella lettera pastorale con cui si annunziava ai fedeli l'apertura del Concilio e la sua importanza. Bernanos ha scritto che «la Chiesa non ha bisogno di riformatori, ma di santi». Oggi, se fosse vivo, il grande scrittore forse non farebbe più quella distinzione sottile. Riformatore autentico e santo, nella Chiesa e per la Chiesa, s'identificano sempre; e si riforma la Chiesa, dall'interno, solo nella misura in cui ci si santifica. Ma non è possibile più perdersi o santificarsi da soli, per cui ogni santificazione ecclesiale del Popolo di Dio diventa, gradualmente ed inarrestabilmente, un atto di riforma. Il Vaticano II - sulle premesse di Papa Giovanni - ha dimostrato appunto la critica nella Chiesa come un atto d'amore. E ha dimostrato che nessun avversario, nessun anticlericale di stretta osservanza, da secoli, aveva mai saputo portare la critica ai mali della Chiesa ad una profondità, ad una sincerità, ad una concretezza quali ha reso possibili il Concilio. Il grande "esame di coscienza" della Chiesa riunita in Concilio non è stato né raggiunto né imitato da alcuna società umana del nostro tempo. Basterebbe pensare ai testi ufficiali delle più famose autocritiche contemporanee, come, ad esempio quelle del comunismo russo che hanno portato prima alla eliminazione di Stalin, quindi a quella di Krusciov, per avere la misura di questa feconda sincerità cattolica di cui hanno onestamente preso atto tutti gli uomini, a cominciare dai "fratelli separati".
L'esempio di Papa Giovanni non è stato un esempio attivo di critica. È stato qualcosa di molto più umile ed esemplare: un esempio di critica passiva. Più che criticare, ha accettato le critiche, cercandovi la verità che poteva esservi, per migliorare sé stesso e rettificare i propri metodi. Davanti ad ogni riserva fatta sul suo conto, egli è sempre andato cercando modi e spirito più adatti a rendere testimonianza al Buon Pastore di cui aveva scelto d'essere l'immagine fra gli uomini. Sempre nello stesso ritiro spirituale del 1959, annota nel diario: «Le accoglienze, subito espresse e mantenute da anni per la mia povera persona da quanti l'avvicinano, mi sono sempre motivo di sorpresa. Il nosce teipsum (conosci te stesso) basta alla mia calma spirituale, ed a mettermi in guardia. Il segreto di questo successo deve essere lì, nell'altiora te ne quaesieris (nel non cercare le cose più grandi di te), e nell'accontentarmi del mitis et humilis corde (mite e umile di cuore). Nella mitezza e nella umiltà del cuore c'è la buona grazia del ricevere, del parlare, del trattare; la pazienza del sopportare, del compatire, del tacere e dell'incoraggiare. Ci deve essere soprattutto la prontezza abituale alle sorprese del Signore, che tratta bene i suoi prediletti, ma di solito ama provarli con le tribolazioni, le quali possono essere infermità del corpo, amarezze dello spirito, contraddizioni tremende, da trasformare e da consumare la vita del servo del Signore e del servo dei servi del Signore, in un vero martirio. Io penso sempre a Pio IX di santa e gloriosa memoria; ed imitandolo nei suoi sacrifici, vorrei essere degno di celebrarne la canonizzazione».
Nel 1960 era ancora più preciso. Quanto aveva sacro e sicuro il senso del Papa e del papato, altrettanto aveva limpido e umile il senso dei propri difetti: «I miei difetti e le mie miserie - annotava nel diario - mi sono motivo di interna, continuata umiliazione che non mi permette di esaltarmi in nessun modo, ma neppure affievoliscono la mia confidenza, il mio abbandono in Dio, di cui sento sopra di me la mano carezzevole che mi sostiene e m'incoraggia. Neppure mi accade di sentirmi tentato ad invanirmi o a compiacermi. "Quel poco che so di me stesso basta per confondermi". La bella frase messa dal Manzoni sulle labbra del cardinale Federico!».

LE PRIME USCITE DAL VATICANO

Papa Giovanni uscì dal Vaticano, la prima volta, il 21 novembre, per visitare la villa di Castelgandolfo. Anche quella era la sua casa, e voleva rendersi conto di come stessero le cose; c'era poi la bellezza dei colli e dei castelli romani da vedere; e c'era anche - in lui tanto squisito e sensibile - il bisogno di andare forse a pregare dove il suo predecessore era morto un mese prima.
Si è molto parlato delle uscite di Papa Giovanni dal Vaticano, e tentati dal "colore", non si è spesso rinunziato a chiamarle "fughe". In realtà è difficile non pensare che a Papa Giovanni non facesse piacere uscire dalla solennità del Vaticano; per lui che aveva visto tanti paesi e tanti popoli, la necessità di continuare a variare i volti e gli orizzonti si faceva sempre più viva, quasi umana e concreta integrazione all'inevitabile contatto quotidiano con persone sempre uguali, in orari sempre uguali, in luoghi sempre identici. Roncalli ha scoperto il Creato ogni giorno da capo, con l'entusiasmo d'un innamorato, con un cuore francescano e devoto, cioè con le reazioni esattamente contrarie a quelle di un esteta o di un generico panteista. Il contatto umano, l'incontro, il dialogo sono stati per lui una vera necessità, a cui spesso ha saputo rinunziare con amore, ma di cui ha sempre sentito il bisogno.
In circa cinque anni di pontificato, sembra sia uscito dal Vaticano centocinquantasei volte: un numero incredibile, se si paragona alla carcerazione volontaria di Pio IX, e dei Papi che gli successero, fino a Pio XI. Un numero più che normale, se si tien conto di ciò che la storia ha fatto maturare, anche in Italia, in circa un secolo, nei rapporti fra Chiesa e Stato. Già Pio XII era uscito parecchie volte, in momenti dettati sempre dalla sofferenza umana, come durante i bombardamenti di Roma, o dalla necessità di testimoniare la libertà della Chiesa. Con Papa Giovanni, tuttavia, si direbbe che la "breccia" che a Porta Pia era stata aperta, nel 1870, per far entrare i bersaglieri italiani, nel novembre 1958 sia stata riaperta, simbolicamente, per far uscire il Papa, "pellegrino apostolico", il Vescovo di Roma in incontri sempre più festosi con il proprio gregge.
La seconda uscita avvenne il 23 novembre per la presa di possesso della basilica del Laterano, cattedrale di Roma e sede del Papa in quanto Vescovo di Roma. Fu un viaggio trionfale, in cui i ricordi affluivano teneri e imperiosi nel cuore di Papa Giovanni. Egli rivide le mura, i luoghi, e anche molte persone che aveva incontrato ed amato nella sua giovinezza, prima di prendere il volo per paesi lontani. Non poteva dimenticare d'essere stato, trent'anni prima, insegnante nell'ateneo annesso alla basilica che era adesso la "sua" basilica.
Nel discorso che tenne alla folla dei fedeli, dopo aver ricordato con pennellate vivacissime, gli splendori degli antichi cortei che conducevano il Papa al Laterano per la presa di possesso, Papa Giovanni ricordava che quegli splendori s'erano fermati a Pio VI, e che Pio IX, già alla vigilia di perdere il "potere temporale, vi era giunto in carrozza, preceduto e seguito da un corteo di dignitari a cavallo", ma "in tempi pericolosi di febbre collettiva e di minacciate confusioni". Quanto a lui, era felice di riconoscere che ciò che nei secoli era andato perduto, era assai meno importante di ciò che era stato guadagnato: «L'ingresso del Pontefice nuovo ha perduto lungo la via il fasto dei tempi lontani: ma quanto ha acquistato di spiritualità, e di intima penetrazione! Non è più al principe, che si adorna dei segni della possanza esteriore, che ormai si riguarda: ma al sacerdote, al padre, al pastore. Un sociologo moderno, cattolico fervoroso e profondo, all'esordire dell'epoca contemporanea, agitata dai problemi dell'ordine e del disordine sociale, formulava per il secolo XX l'augurio del Cristo, che torna in trionfo sulle spalle del popolo. Ahimè! Cristo non torna ancora in pienezza di trionfo: ma i segni del volgersi delle anime, affaticate dalla vanità e disilluse, verso la sorgente più pura della verità della vita si moltiplicano innanzi agli occhi nostri, e questa partecipazione diffusa all'esultanza della Chiesa nella successione degli uomini chiamati al ministero apostolico più alto e più grave è indizio sicuro di progresso spirituale e di benedizioni copiose».
Il 27 novembre tornò al Laterano per inaugurare l'anno accademico dell'ateneo che gli era particolarmente caro. Nell'aula magna, durante il discorso di rito, non seppe frenare l'onda dei ricordi che gli salivano al cuore. Dopo aver citato san Gerolamo e san Gregorio Magno come esempi di dottrina e di santità, aprì il cuore ai giovani che lo ascoltavano, e raccontò quali gioie, tanti anni prima, gli aveva dato l'ateneo lateranense: «Lasciateci ora conchiudere con un ricordo personale. Ciò che nella vita fu particolarmente piacevole, si confida talora a pagine discrete, che, rilette poi a distanza di anni e di avvenimenti, riempiono il cuore di tenerezza e di letizia. Chi ora vi parla, fu un giorno invitato dal cardinale vicario di Sua Santità, Basilio Pompili - chi non lo ricorda con rispettosa e sorridente simpatia? - a tenere, qui al Laterano, il posto del professore di patrologia, in quei giorni defunto. Quelle nostre lezioni furono quindici di numero, poiché sopravvenne quasi subito l'obbedienza di lasciare il Movimento di cooperazione missionaria, e di partire da Roma per il prossimo Oriente. Quelle quindici lezioni, dai Padri Apostolici a san Cipriano, ci interessarono così vivamente, da rappresentare, a distanza di trentatré anni, motivo di umile ma sincera esaltazione. Non sappiamo a che cosa il nostro successo fosse dovuto: ma rammentiamo bene la festa e gli applausi con cui i nostri cari alunni di quel tempo accompagnarono e sottolinearono ogni lezione, e la sorpresa al chiudersi inatteso di quell'insegnamento per noi allora così spontaneo, ordinato e facile. Lasciate che in tutta familiarità esprimiamo l'augurio che durante il corso dell'anno accademico tutte le lezioni, humiliter dicimus, riescano con uguale pienezza di soddisfazione e di letizia: nel senso dell'insegnamento dei professori e della applicazione degli alunni».
Papa Giovanni XXIII durante la sua visita all'Ateneo lateranense

RIVOLUZIONE IN CONCISTORO

Il mese di dicembre fu quello che rivelò meglio al mondo il tipo di Papa che i cardinali avevano scelto. Fu appunto in quel mese che si registrarono due avvenimenti inattesi e singolari, che dettero subito la misura delle prospettive in cui il nuovo Papa guardava alla Chiesa ed al mondo: il concistoro del 15 dicembre, e la visita al carcere di Regina Coeli del 26 dicembre.
Come si sa, al conclave i cardinali erano ridotti a cinquantuno. Fin dal tempo di Sisto V il numero dei membri del collegio cardinalizio non poteva superare i settanta. Cinquanta erano troppi pochi, si restava assai al disotto del numero prescritto.
Pio XII non aveva dimostrato molta simpatia per i concistori frequenti. Papa Giovanni decise di colmare la lacuna, per qualsiasi evenienza, e di restituire al collegio massimo della Chiesa il suo plenum canonico. Ma non si fermò al numero prescritto. Per una specie di compensazione, lo oltrepassò, con semplicità e disinvoltura, portando il numero dei cardinali a settantacinque. Infatti i nuovi porporati designati furono ventitré.
La scelta dei cardinali fu oculata e intenzionale. Papa Giovanni guardava già a nuovi orizzonti, da allargare non soltanto con gli auspici della parola e della stima in astratto. Un nuovo orizzonte, secondo lui, poteva aprirsi soprattutto se al vertice della Chiesa - cioè nel consenso massimo di essa - fossero effettivamente inseriti uomini che portavano la complessa esperienza di tutto il mondo, rappresentanti di tutte le razze e di tutti i popoli. La maggioranza tradizionale dei porporati italiani cominciava a finire proprio col concistoro del 15 dicembre 1958; ed era giusto che fosse un Papa italiano a porla parzialmente in crisi.
Non era un caso nemmeno la scelta di colui che figurava al primo posto nella lista degli eletti. Era Giovanni Battista Montini, arcivescovo di Milano che per quattro anni non aveva ricevuto la porpora, pur amministrando una diocesi-chiave d'Italia; l'assenza di un concistoro, negli ultimi anni del pontificato di Pio XII, aveva lasciato Milano priva del cardinale che per tradizione le spettava. Anche molti degli altri nomi, nella lista dei ventitré nuovi principi della Chiesa, avevano un significato ben preciso che non poteva sfuggire a nessuno. C'era il successore di Roncalli a Venezia, Giovanni Urbani; c'era il suo segretario di Stato, Domenico Tardini; c'era Amleto Giovanni Cicognani, che gli sarebbe successo poco dopo: c'erano mons. Richava, di Bordeaux; Koenig, di Vienna; Döphner, di Berlino; Julien, decano della Sacra Rota.
Toccò proprio a Montini, capolista dei porporati di nuova nomina, a leggere l'indirizzo rituale al pontefice. Pur nel linguaggio controllato e classico di una simile circostanza, l'accento dell'arcivescovo di Milano cadde ripetutamente, e di proposito sul significato di un uomo come Giovanni XXIII al governo della Chiesa in quel preciso momento della storia della Chiesa.
Papa Giovanni, nell'annunziare le nuove nomine, dopo aver preso atto delle manifestazioni di solidarietà e di simpatia da parte del popolo e dei «fratelli separati», confidò ai presenti la propria pena per quanto stava avvenendo in Cina, dove si era venuta creando una «Chiesa nazionale» che dura tuttora. Quel discorso rimarrà uno dei gridi più alti di deplorazione levato da Papa Giovanni contro la persecuzione ai danni della Chiesa: «Da tempo, come sapete, i cattolici della Cina versano in condizioni quanto mai penose e difficili. Sono stati diffamati, imprigionati e infine espulsi; missionari, pacifici araldi del Vangelo, tra i quali era un gran numero di arcivescovi e vescovi. Vescovi cinesi zelanti ed intrepidi sono stati gettati il carcere, ed altri non pochi ordinari sono stati confinati o comunque impediti di esercitare liberamente il loro ufficio pastorale... Che meraviglia se, percossi i pastori, anche il gregge loro affidato sia stato fatto oggetto di allettamenti, di minacce, di vessazioni fisiche e morali, per indurlo a rinnegare la sua fedeltà, a rigettare il fondamento della sua vocazione cattolica, a rompere il vincolo di obbedienza e di amore che lo unisce alla Sede di Pietro? Purtroppo, dobbiamo dirlo con dolore, non sono mancati alcuni che, più timorosi delle ingiunzioni degli uomini che del santo giudizio di Dio, hanno ceduto alle imposizioni dei persecutori, giungendo al punto di accettare una consacrazione episcopale sacrilega, dalla quale non può derivare alcuna giurisdizione sui fedeli, perché conferita senza il mandato apostolico».
Rispondendo poi all'indirizzo del card. Montini, il Papa metteva a sua volta l'accento sull'importanza che i nuovi cardinali rappresentavano per la missione della Chiesa nel nostro tempo. Dispensandosi dall'elogio particolare di ciascuno dei nominati - com'era stato costume dei papi fino a Pio XI - Papa Giovanni intendeva rivalutare il collegio cardinalizio come tale; aprendogli nuovi orizzonti, e ponendolo in grado di esercitare funzioni sempre più precise e importanti. «Voi - disse - cardinale Montini, e tutti gli altri vostri colleghi qui presenti ed ugualmente degnissimi, fate grazia di dispensarci da questo servizio, che noi saremmo pur lieti di rendere ai meriti reali e distinti della vostra ecclesiastica operosità. Negli accenti che ci furono testé rivolti, abbiamo visto brillare tutto l'ardore e la fede delle anime di tutti. Ivi è contenuto infatti per tutti e per ciascuno il motivo della lode più alta e più piena. D'altra parte ci è piacevole farvi notare, se la vostra modestia ce lo permette, come la vostra stessa presenza qui, in questa occasione, e le benemerenze, che ovunque vi seguono, raccolte sotto tutti i cieli in tanti anni di fede e luminoso servizio e utile servizio della Chiesa nelle vostre diocesi e nei vostri altissimi uffici, costituiscono da se stesse l'elogio più bello e veritiero che possa esservi rivolto».
Chi non sa che Papa Giovanni è stato più volte accusato di non aver posto fine perentoriamente a certi criteri di selezione e a certi obblighi di osservanza a regole e consuetudini superate dai tempi ma non condannate esplicitamente dalle vere necessità della Chiesa? Come mai - si domandarono molti, davanti a quel primo concistoro - accanto a nomi tanto significativi e importanti, restano troppi nomi che, nell'economia della Chiesa del nostro tempo, non significano quasi nulla? Domande inutili, se non si tien conto, da una parte dell'assoluto rispetto dei meriti di ogni uomo da parte di un uomo come Roncalli, e dall'altra della fiducia che egli ha sempre riposto in quella «legge di gradualità» che più tardi definirà solennemente, nella Pacem in terris, come la condizione di tutti gli autentici progressi sociali e religiosi.

«I MIEI OCCHI NEI VOSTRI OCCHI»

Uno degli elementi del realismo evangelico che ha condotto Papa Giovanni a non sbagliare mai un incontro umano, è senza dubbio la sua volontà e la sua capacità di guardare sino in fondo la realtà che affrontava, senza rifugiarsi nelle belle parole.
L'incontro con i carcerati di Regina Coeli è stato il primo documento universale di questa pienezza di contatto e delicatezza d'amore. Raramente - pur in tantissime altre occasioni eccezionali - la sua paternità è stata compresa e goduta dagli uomini come in quel mattino del 26 dicembre 1958.
Per Papa Giovanni, qualsiasi genere di pace comincia sempre dall'uomo, dalla riconciliazione dell'uomo con il proprio equilibrio, e con gli altri uomini. L'incontro con Dio, l'edificazione della dimensione spirituale completa e ideale non può essere possibile senza la purificazione e il consolidamento di questa base umana.
Già nel primo messaggio natalizio - sulla linea dei grandi messaggi di Pio XII - Papa Roncalli ha puntato sull'urgenza e la necessità della pace come la condizione della vita umana per tutti gli uomini, come la garanzia, per tutte le creature, per potersi esprimere compiutamente e rispondere alla propria vocazione: «Natale del Signore: annuncio di unità e di pace su tutta la terra: impegno rinnovato di buona volontà messa a servizio dell'ordine, della giustizia, della fraternità presso tutte le genti cristiane insieme accorrenti in un comune desiderio di comprensione, di grande rispetto delle sacre libertà della vita collettiva nel triplice ordine religioso, civile, sociale... Tempo di Natale: tempo di opere buone e d'intensa carità. L'esercizio di quelle che dànno sostanza e calore alla civiltà, che da Cristo prende nome, ha per oggetto le quattordici opere di misericordia. Il Natale deve segnare il maximum del fervore religioso e pacifico per questa effusione di unità e di carità verso i fratelli bisognosi e ammalati; i piccoli, i sofferenti, di ogni specie e di ogni nome. Sia esso un Natale costruttivo».
Il suo primo Natale di Papa fu costruttivo davvero. Lo santificò compiendo quell'opera di misericordia corporale che dice di «visitare gli infermi e i carcerati».
Dopo aver celebrato le tre messe di Natale, una per il corpo diplomatico, una in casa e la terza nella basilica vaticana, uscì a visitare gli ammalati degli ospedali di Gesù Bambino e di Santo Spirito. Il giorno dopo volle uscire ancora. E la destinazione fu il carcere più noto a Roma e d'Italia.
Natale permetteva quasi a tutti di spostarsi e di vivere insieme ai propri cari una giornata di letizia e di pace: «Natale coi tuoi». I «suoi» del Papa, in quel Santo Stefano del 1958, erano i carcerati, cioè quelli che non si sarebbero potuti muovere per nessun motivo. Avrebbero avuto un rancio meno sgradevole, qualche pacco da casa qualche visita. Ma avrebbero dovuto rimanere dov'erano; e, per molti aspetti, anche quello sarebbe stato un giorno grigio e pesante come gli altri, forse, semmai, ferito da una più profonda amarezza, da una più viva malinconia.
È lecito dire che in un certo senso la «leggenda» di Papa Giovanni è nata e si è diffusa soprattutto con quell'irruzione d'amore in un carcere. Il mondo intero ha intuito immediatamente e valutato il senso evangelico di un gesto come quello. E tutto è risultato autentico, genuino, sincero e prezioso, nella misura in cui si è cercato di compierlo senza nessuna risonanza esteriore, come davvero conviene ad un'opera di misericordia.
Il Papa arrivò al carcere con pochissimo seguito, nel suo mantello rosso, nella sua veste bianca, commosso più di tutti per quella festa di carità che la sua fantasia gli aveva suggerita di regalare ai suoi figli ed a sé. Non portava doni particolari, portava soltanto se stesso, ciò che la sua visita realizzava e significava. Tutto fu genuino appunto perché mantenuto nel carattere di una sorpresa del padre ai figli. I detenuti seppero che il Papa non era più una figura lontana, bianca, irraggiungibile, che, ad ogni Natale, li nominava nei suoi discorsi, e pregava per loro. Seppero e videro che era un uomo di carne, un padre, uno come loro, che si ricordava di loro ed aveva voluto vederli in faccia, uno ad uno, proprio loro che spesso erano stati costretti a coprirsi il volto per nascondersi dai lampi dei fotografi, per non finire sui giornali come esempi di malcostume e di crudeltà.
Come in una leggenda dimenticata, le cancellate si aprirono, il Papa venne avanti. Davanti alle transenne affollate, Papa Giovanni era ridente di felicità, col cuore in tumulto: scopriva che l'amore che era andato a portare a quei suoi figlioli, gli veniva immediatamente restituito, o in silenzio, o con le parole sconnesse e scomposte, bruciate dal singhiozzo, che salivano verso di lui, accompagnate dal gesto delle mani imploranti e dal bisogno di cadere in ginocchio. Era lui che dava, ma era anche lui che riceveva, in quel momento. Continuava, per forza e vita della carità della Chiesa, quel meraviglioso «scandalo» evangelico - mai compreso dai farisei di tutti i tempi - per cui il Signore, nel suo Vicario, «stava coi peccatori e mangiava con essi».
Anche per un uomo dell'intuizione di Papa Giovanni, in quel momento, si sarà presentato, per un attimo, il problema del linguaggio da usare, del tono più adatto. Parlare a chi non è libero di tutto se stesso - malato o carcerato che sia - è la cosa più difficile, anche per un Papa. Parlare poi a chi, in genere, è reo di qualcosa di molto preciso porta al rischio o di ribadire la crudeltà inevitabile della società, o a farla risultare inutilmente severa nel condannare, scardinandone il credito e i diritti di fronte a coloro che essa ha colpito. Offendere la società o offendere i carcerati: è sempre facile; è un rischio che c'è anche in un semplice saluto.
Papa Giovanni superò anche quel rischio. Era lì per consolarli di ciò che pativano, giustamente o ingiustamente; era lì per conoscerli meglio, poiché anch'essi erano suoi figli; era lì per far coraggio ad accettare per amore ciò che avrebbero comunque dovuto accettare per forza, a denti stretti, e magari con la bestemmia e la ribellione nel cuore. Scelse la via più persuasiva ed umile: ricordò, come si può ricordare fra amici, che anche un suo parente aveva conosciuto la galera, per aver cacciato di frodo. Li mise subito tutti a loro agio. Li guardò, e disse che era quella la cosa che gli premeva fare: «Ho messo i miei occhi nei vostri occhi, il mio cuore accanto al vostro cuore». La consolazione nasceva soprattutto da quella vicinanza spontanea e totale. Ognuno, del dono di quella visita, avrebbe ricevuto ciò che più gli era necessario. Forse qualcuno non ne avrebbe ricevuto nulla; ma questo, oggi, a otto anni di distanza, è difficile pensarlo. Basta riaprire gli album di foto di quell'incontro, scrutare, magari con una lente come ha fatto chi scrive, quei volti, uno per uno, per scoprirvi una sorpresa che si bagna di lacrime, di una commozione sconfinata, di un rimorso che mai era stato prima tanto vitale e risolutivo. E quel sorriso intenso ed umile di Papa Giovanni, che respira una gioia sconosciuta fino a quel momento a lui stesso: ecco uno dei momenti che dobbiamo alla tecnica della fotografia e della registrazione sonora se possiamo godere ancora in tutta la sua intensità.
È stato scritto che la faccia di Papa Giovanni, soprattutto in certi momenti, era «una specie di sacramento»: cioè, era come la materia di ciò che egli ardeva e splendeva nel cuore. A molti, per anni, è bastato il lume di quel volto, per riuscire a farsi un'idea della paternità di Dio, della maternità della Chiesa; per molti altri quel volto ha significato tutta la gamma degli effetti più semplici della vita, il nodo delle fedeltà, delle gioie e delle sofferenze della famiglia; il senso della casa il gusto delle cose semplici. La solennità in cui quel volto era incorniciato, la ricchezza degli abiti che Papa Giovanni con naturalezza portava, non hanno mai offeso o frenato lo slancio dei poveri e dei sofferenti verso di lui. Segno che la pienezza del suo spirito, la semplicità dei suoi modi riuscivano sempre a trasfigurare le stesse cose che troppe volte avevano fatto schermo fra la Chiesa e gli uomini.
L'incontro di Regina Coeli - giudicato senza emozioni eccessive, a distanza di anni - è qualcosa di più di un momento di pietà e di carità cristiana. È come il segno di tutto un pontificato, che si è svolto e approfondito nella pietà verso tutti gli uomini, ma soprattutto verso i più poveri e i più feriti: i privi di pace, i privi di pane, i privi di libertà, i privi di Dio.
L'eco della visita a Regina Coeli fu immenso. Ma Papa Giovanni, nel Giornale dell'anima, non lo ha commentato nemmeno con una parola. Certe cose, anche per lui, bastavano a se stesse, si giustificavano nella carità da cui nascevano e a cui tornavano. Egli era soprattutto convinto che anche un gesto del genere - che a tutto il mondo sembrò inaudito e rivoluzionario - rientrava nelle cose che un Papa deve fare con estrema semplicità, senza sforzo e senza esibizionismo. Se ai pontefici precedenti quelle cose erano state rese impossibili, questo non dipendeva da una minore larghezza di cuore, ma solo dal fatto che le porte del Vaticano restavano volontariamente chiuse. Ora che quelle porte si stavano aprendo sempre più, perché lui, il Papa che le aveva spalancate, non avrebbe dovuto fare anche tutte quelle cose che un Papa, a porte spalancate, deve pur dare l'esempio di fare? Molto probabilmente Papa Giovanni - a parte la commozione umana e la gioia che ne ricavò come un dono inatteso - giudicava la visita ai galeotti come il puro e semplice compimento del proprio dovere di Papa da una parte e di Vescovo di Roma dall'altra.

I PROBLEMI DELL'AMERICA LATINA

In due mesi di pontificato, Papa Giovanni ebbe e dette i segni esemplari di tutto il proprio pontificato. Non gli mancò il contatto con uno dei problemi più spinosi e complessi della Chiesa: quello dell'evangelizzazione, o rievangelizzazione, dell'America Latina.
Il 15 novembre 1958 riceveva e salutava i cardinali, arcivescovi e vescovi dell'America del Sud, presenti a Roma per l'assemblea del Consiglio Episcopale Latino Americano. L'importanza efficiente al nuovo organismo era stata data da Pio XII, che però non aveva potuto vederne gli sviluppi iniziali più consolanti Papa Giovanni ereditava così un'occasione per svelare il proprio cuore di fronte ad uno dei problemi e degli impegni più complessi della Chiesa dei nostri tempi.
Riconobbe l'importanza dell'America Latina: «Nell'America Latina, lungi dal vacillare, rifulge di sempre più vivida luce la fiaccola della fede che fin dai primordi ne illumina la storia; questa nobile famiglia di nazioni, con mirabile sviluppo civile, demografico, culturale ed economico, si va sempre più ingrandendo e sembra urgere alle soglie dei destini del mondo per assumervi una parte decisiva, si presenta profondamente animata da uno spirito e da propositi dettati dalla verità che sola fa liberi gli uomini e grandi le nazioni... Vostra, venerabili fratelli, è la responsabilità di far sì che tutto questo divenga una felice realtà: di voi che lo Spirito Santo, attraverso la determinazione della Sede Apostolica, ha posto a reggere, ciascuno nella propria diocesi, la Chiesa santa di Dio».
Ai vescovi sudamericani raccomandava poi la lungimiranza, ed una capacità di giudizio che tenesse il giusto conto tanto dell'accessorio che dell'essenziale: «Abbiate quell'ampiezza di visione che nella ricerca del bene comune vi faccia scorgere, non solo un dovere da compiere, ma un mezzo, fra i più efficaci, per assicurare gli interessi spirituali delle singole vostre diocesi». Suggeriva anche rimedi e programmi specifici, a lunga o a breve scadenza. «Studiate - disse - come si possono utilizzare nella maniera maggiormente efficace l'azione dei vostri sacerdoti, quella così preziosa dei religiosi e delle religiose, l'apporto apostolico di ausiliari laici ben preparati, senza trascurare il prezioso sussidio offerto dalla stampa e dalle altre moderne forme di diffusione del pensiero: pensiamo, ad esempio, a quanto potrebbe servire anche per la diffusione dell'insegnamento catechistico e della predicazione evangelica tra i fedeli sparsi lontani dai centri parrocchiali, per la stessa, pur ridotta, loro partecipazione a cerimonie religiose, l'impiego appropriato di servizi radiofonici, già in talune parti soddisfacentemente sperimentati».
Sotto il linguaggio classico e non di rado circonlocutorio, il cuore e la mente di Papa Giovanni tendevano già con chiarezza a rendere efficiente uno degli episcopati più eroici della Chiesa di fronte ai problemi di uno dei popoli più fedeli e più poveri della cristianità. Avremo modo di vedere più avanti con quanta sollecitudine Papa Giovanni porterà a compimento la istituzione delle gerarchie ecclesiastiche già in fase di costituzione in molti paesi dell'Africa e dell'Asia, realizzando un disegno a vasto raggio già tracciato da Pio XII.
Oltre tutto, egli cominciò subito, prima del Concilio, a puntare sulla coerenza e l'azione concorde dei vescovi e soprattutto delle conferenze episcopali regionali, nazionali o continentali. Colui che si sentì sempre soprattutto un vescovo, stava già, più o meno consapevolmente, preparando i vescovi a prendere coscienza della loro precisa responsabilità nella Chiesa, sia sul piano della chiarezza teologica che su quello delle competenze e delle responsabilità che ne derivavano.
Passerà appena un mese e mezzo circa, e Papa Giovanni, indicendo il Vaticano II, aprirà il Concilio che è stato giustamente definito «dei vescovi», come integrazione e compimento organico di quel Vaticano I che era stato definito «il Concilio del Papa». Sarà infatti nel Vaticano II che la dottrina della «collegialità episcopale», riconosciuta e approvata, porterà a profonde modifiche di forma e di metodo, per volere del pontefice, nel governo della Chiesa universale.
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